dipendenza affettiva, Letteratura

L’amica Geniale. Storia di Elena Greco e della genesi di una dipendenza affettiva (parte 1).

Il 27 novembre 2018 ha fatto il suo debutto su Rai Uno “L’amica geniale”, trasposizione sul piccolo schermo, diretta da Saverio Costanzo, del best seller della misteriosa Elena Ferrante. La famosa quadrilogia, di cui l’amica geniale è il primo libro, narra la saga di Elena – detta Lenù – e Lila, le amiche che hanno appassionato milioni di lettori in tutto il mondo con le loro vite che si dipanano in un arco temporale che copre oltre 50 anni di storia, di Napoli e dell’Italia intera.

L’amica geniale è una storia di formazione, di amicizia, di amore e di emancipazione, ma è anche la storia della genesi di una dipendenza affettiva (quella di Elena) e di una personalità dai tratti narcisistici (quella di Lila) e di come queste due si incastrino in una lunga relazione “intermittente”, fatta di momenti di grande scambio, vicinanza e condivisione, ma anche di grande conflittualità, di una competizione mai cessata e di continui allontanamenti, tanto dolorosi quanto necessari al processo di individuazione psicologica dell’una e dell’altra.

É un errore considerare in maniera dicotomica Elena come dipendente e Lila come narcisista perché questi due donne si spostano continuamente su questi due assi, come in una danza.

Elena, sebbene i molti tratti tipici della dipendente affettiva, ha quote ragguardevoli di narcisismo. Lila, dal canto suo, si mostra altrettanto dipendente da Lenù.

Elena Greco, detta Lenù o Lenuccia è nata nel 1944 a Napoli, in un rione difficile, povero e degradato, dal quale non si vede il mare. Un luogo che la fame del secondo dopoguerra ha reso ancora più cruento. È una ragazzina bionda, educata, diligente. Sin da piccola si sente estranea al luogo in cui è nata e sogna di fuggire via. Condivide questo sogno con Lila o, forse, inizia a sognarlo perché è Lila che lo vuole: sono amiche da quando avevano 6 anni. Si erano tenute per mano per la prima volta quando sfidarono il terribile Don Achille, malavitoso usuraio che governava il rione dove erano nate, e da allora non si erano mai veramente lasciate, almeno non prima che Lila, in pieno stile narcisistico, decidesse di sparire. Eppure di fratture ne avevano vissute tante durante il corso delle loro tumultuose esistenze, ma avevano trovato il modo di ritrovarsi sempre in una amicizia simbiotica e potente: “io, io e Lila, noi due con quella capacità che insieme – solo insieme – avevamo di prendere la massa di colori, di rumori, di cose e persone, e raccontarcela e darle forza”.

“Il mio diventare era diventare dentro la sua scia» dice ad un certo punto Elena che, con la sua devozione per Lila, il suo correrle dietro senza perderla mai di vista, il suo valutare le sue esperienze di vita sulla scorta di quelle dell’amica, sviluppa per Lila prima, e per gli uomini della sua vita poi, gradi diversi di dipendenza. Per questo il suo personaggio diviene emblema della dipendente affettiva e la sua storia infantile torna utile per spiegarne la genesi.

Le dipendenti affettive infatti:

  • Provengono da famiglie in cui i loro bisogni emotivi di bambine, per motivi che possono essere anche molto vari, sono stati spesso ignorati e pertanto sono cresciute con la sensazione di essere “invisibili”. Molte di loro hanno sperimentato un attaccamento ambivalente alla loro madre: ripercorrendo la loro storia troviamo mamme sintonizzate con i bisogni delle figlie in maniera ambivalente, in modo da provocare nelle bambine un perenne stato d’attesa del momento (del tutto imprevedibile) in cui sarà somministrata una “dose” d’amore: Lenuccia nasce in una famiglia come tante, una famiglia del secondo dopoguerra, dove i figli sono bocche da sfamare finché non crescono e diventano braccia che lavorano. Fino ad allora deve pensarci suo padre Vittorio – usciere comunale – uomo di poche parole e di gesti che non sanno farsi valere. Non c’è spazio per i bisogni emotivi quando è difficile soddisfare quelli primari. Così la piccola Lenù è lasciata a sé stessa e alla scuola, un passaggio obbligato, prima che finalmente diventi grande e contribuisca ad aumentare il tenore di vita della famiglia “faticando” o al massimo contraendo un buon matrimonio che ne elevi lo status socio-economico. La madre Immacolata, donna algida dall’andatura zoppa e dalla lingua tagliente, è il fulcro della vita familiare e domestica dei Greco. È una donna che dispensa pochissimo affetto e che, comunque, pare più propensa a dividere tra i suoi figli più piccoli, escludendo Elena, quella strana figlia intelligente, timida e studiosa che fa così fatica a capire perché desidera per sé cose così diverse da quelle dalle quali è destinata in quanto donna. In poche occasioni si mostra diversa, più umana, in grado di cogliere l’essenza della figlia, come quando dice le dice: “Non sta scritto da nessuna parte che non ce la puoi fare”, unico incoraggiamento in mezzo a tante critiche che, ad un’analisi più attenta, sembra però per lo più legato a una rivalsa personale spostata sulla figlia dotata. Immacolata per Elena sarà a lungo una madre persecutoria, qualcuno da cui prendere le distanze in ogni modo. Lo farà attraverso ogni sua scelta (che non anticipo per chi non avesse letto i libri e stesse seguendo la serie TV proprio in questi giorni). Già all’inizio del libro, la Ferrante tratteggia una possibile spiegazione del perché origina la dipendenza affettiva che Lenuccia svilupperà nei confronti di Lila: “In quel periodo mi cominciò una preoccupazione. Pensai che, sebbene le mie gambe funzionassero bene, corressi di continuo il rischio di diventare zoppa […]. Perciò forse mi fissai con Lila,che aveva gambette magrissime, scattanti, e le muoveva sempre […]. Qualcosa mi convinse allora che se fossi sempre andata dietro a lei, alla sua andatura, il passo di mia madre, che mi era entrato nel cervello e non ne usciva più, avrebbe smesso di minacciarmi. Decisi che dovevo regolarmi su quella bambina, non perderla mai di vista, anche se si fosse infastidita e mi avesse scacciata”.
  • Le dipendenti affettive hanno avuto genitori che non si accorgevano di loro, dei loro bisogni emotivi, di ciò che provavano, dell’amore di cui abbisognavano. Nella maggior parte dei casi hanno avuto infanzie più difficili che infelici, in quanto i genitori erano costretti, loro malgrado, ad affrontare problematiche che spesso li rendevano distratti, poco attenti alle figlie. Per questo diventano spesso donne di successo in altre aree della vita (a scuola, all’università e sul lavoro): diventare brave non è altro che un tentativo di portare su di sé quelle attenzioni che hanno sempre sentito carenti “se sarò brava l’altro (il genitore il partner, la mia amica) mi amerà”: Lenù era brava a scuola, seguiva il rigo alla precisione, studiava, imparava quello che c’era da imparare. Ripeteva a memoria le poesie e le tabelline, ma ci riusciva perché prima di tutto era diligente: “gli scolari sapevano quanta fatica avevo fatto per mandare a memoria tutta quella roba e perciò non mi odiavano […]”. Si descrive come “una bambina con i boccoli biondi, bellina, felice di esibirsi ma non sfrontata”. I genitori non avrebbero voluto che studiasse, il suo destino era esattamente quello di ogni bambina del rione: fermarsi alla quinta elementare. Quando la maestra palesò per lei la possibilità di proseguire gli studi e di prepararla per sostenere l’esame di ammissione alle scuole medie, i suoi genitori discussero molto, mentre Elena, seduta al tavolo in silenzio non si batté per il suo futuro, come invece fece Lila, e accettò passivamente la decisione dei suoi. La madre era contraria, voleva che l’aiutasse in casa, sembrava profondamente infastidita dalla possibilità che la figlia riuscisse meglio di lei, che avesse maggiori possibilità. Alla fine fu il padre a decidere di farle fare l’esame, ma a patto di essere la più brava di tutte, altrimenti l’avrebbero immediatamente tolta dalla scuola. Non esserlo avrebbe significato, quindi, non solo perdere la possibilità di istruirsi ed emanciparsi, ma anche tradire la fiducia dell’unica persona che sembrava accorgersi dei suoi bisogni e sintonizzarsi con i suoi desideri, nonostante i suoi silenzi di brava bambina. Contemporaneamente voleva dire rinunciare alla possibilità di conquistare, col suo sforzo scolastico e i buoni risultati, la stima e l’amore di una madre arida. Non poteva permettere che succedesse, e così faticò sui libri per molti anni, fino a diventare una scrittrice di grande successo.
  • Sono poco selettive: si legano spesso al primo venuto in quanto lo percepiscono forte e protettivo, ma non si concedono un tempo iniziale di valutazione dell’altro: Lenù si sente legata a Lila ancor prima di conoscerla, come se bastasse voler bene all’immagine che di Lila si è creata nella testa per voler bene a Lila stessa. La devozione per lei nasce tra i banchi di scuola, ben prima che stringano amicizia: “c’era già allora qualcosa che mi impediva di abbandonarla: non la conoscevo bene, non ci eravamo mai rivolte la parola pur essendo continuamente in gara tra noi […] ma sentivo che se fossi scappata insieme alle altre avrei lasciato a lei qualcosa di mio che non mi avrebbe restituito più”.
  • Non ascoltano la loro voce interiore: nonostante all’inizio della relazione una vocina suggerisca loro che qualcosa non va, scelgono di ignorarla in nome dell’illusione dell’amore che sentono il bisogno di provare: Lenù è profondamente convinta che se si comporterà bene gli altri – Lila compresa – l’ameranno. Pertanto si dedica “allo studio e a molte altre cose difficili solo per restare al passo con quella bambina terribile e sfolgorante”. Si affida dunque a Lila e, come nelle più classiche relazioni di dipendenza affettiva, ammette senza remore che l’amica è sfolgorante solo per lei: “Per tutti gli altri scolari era solo terribile”. Lenuccia, ignora, volutamente, ciò che di Lila sa sin dall’inizio: “era una bambina cattiva, lei era cattiva sempre” e, quando questa tira giù nello scantinato del terribile don Achille la sua unica ed amata bambola, dice che non si “sarebbe mai aspettata che facesse una cosa così malvagia”, come se negasse a sé stessa di aver già preso coscienza di quanto male potesse farle.
  • Credono che se non disturberanno, se non protesteranno, se non faranno troppe richieste, l’altro le amerà, pertanto mettono in secondo piano i loro bisogni in modo che la stabilità della relazione non venga mai messa in discussione. La loro mente, infatti, non si sente attrezzata per affrontare la rottura della relazione. Immaginarne la fine apre a scenari drammatici nei quali ci si immagina cadere in un baratro di dolore senza fine: “Non te ne importa?” chiede Lila a Lenuccia dopo aver inabissato con fare malevolo le loro bambole nel buco nero della cantina, oltre le grate. Ed Elena non risponde: “provavo un dolore violentissimo, ma sentivo che più forte sarebbe stato il dolore di litigare con lei. Ero come strozzata da due sofferenze, una già in atto, la perdita della bambola e una possibile, la perdita di Lila.
  • Sentono che l’amore dell’altro vada conquistato ad ogni costo, e raccolgono la sfida di stargli accanto nonostante tutto, perché è ciò che hanno imparato a fare quando erano bambine. Lenù cresce con una madre fredda e, come ogni persona che è rimasta affamata di nutrimento affettivo, non smette mai di cercarlo. E così quando incontra Lila, pur di assicurarselo, è disposta al subirne le angherie e la superiorità, mettendo in un cantuccio qualsivoglia bisogno, perché l’altro, così necessario per la sopravvivenza psichica, non lo si può perdere, pena rimanere annientati. “È probabile che questa sia stata la mia maniera di reagire all’invidia, all’odio, e soffocarli. O, forse, travestii a quel modo il senso di subalternità, la fascinazione che subivo. Certo mi addestrai ad accettare di buon grado la superiorità di Lila in tutto, e anche le sue angherie”.

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La dipendenza ha origine qui. Nel vuoto che lascia una madre che non sa abbracciare, accogliere, e nel desiderio che l’altro, Lila nel nostro caso, possa riempirlo. Sebbene così diverse nel corpo e nello spirito, Lila e Immacolata (la madre di Elena), hanno su di lei una fascinazione potente. È il fascino della donna più debole e insicura verso una donna più forte e autorevole, “terribile e sfolgorante”. Entrambe non sono mai del tutto raggiungibili sul piano affettivo: se lo fossero perderebbero la loro aura affascinante e smetterebbero di essere il motore invisibile di tutte le azioni di Elena. 

Conquistare Lila è per Elena conquistare la madre, l’eterno ritorno della sfida sottesa alla dipendenza affettiva.

Appuntamento a Martedì 11 dicembre, con la seconda parte dell’articolo “L’amica geniale: Storia di Lina Cerullo e della genesi del narcisismo”.

Dott.ssa Silvia Pittera, Psicologa e Psicoterapeuta.

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