Altre cose che voglio dirvi

L'importanza di essere deboli.

Oggi voglio scrivere un articolo impopolare rispetto a ciò che circola al tempo della forzata reclusione da Coronavirus.

Impopolare rispetto ai consigli degli esperti su come affrontare questi giorni di assoluto isolamento e di crudele rarefazione relazionale. Che poi il termine rarefazione mi fa sorridere, perché rimanda all’aria pulita, alle vette innevate, al respiro che si fa corto mentre l’altitudine aumenta scalando quel verdissimo sentiero di montagna, all’aria pungente e grigia e piovosa e densa di rugiada di certi mattini domenicali nelle grandi città.

E invece, in questi giorni di coatta segregazione domestica, rarefazione relazionale significa boccheggiare: respirare l’aria viziata del soggiorno di casa, una stanza da dividere con i propri familiari, non sempre troppo piccola per contenere i corpi di tutti, più spesso decisamente angusta per contenerne i pensieri. Significa farsi scivolare tra un corpo e un altro, senza toccarsi, al supermercato, tra gli scaffali di prodotti colorati in esaurimento. Rarefazione relazionale è fare un passo indietro per allontanarsi da chi è in fila davanti a te, senza avvicinarsi troppo a chi è in fila dopo di te, con gli occhi bassi, perché infondo ci vergognamo di pensarli come nemici, gli altri, gli untori, ma non riusciamo più a farne a meno. Rarefazione relazionale è sentirsi soli, quando la lezione on line finisce, quando si chiude la sessione di smartworking, quando si riattacca la videochiamata con un familiare e si clicca sulla cornetta a testa in giù e l’altro svanisce improvvisamente davanti a noi, al suono di un click, e non c’è più il tempo di girarsi un’altra volta e salutarlo e sorridere e soffiare un bacio volante sul palmo della mano e guardare la sagoma che svanisce all’orizzonte. Rarefazione relazionale sono i nipoti lontani dai nonni, i figli lontani dai genitori, gli innamorati che non possono toccarsi. Sono quattro baci, due abbracci, tre carezze, due pacche sulle spalle e sette sorrisi in meno, ogni giorno.

Sì, oggi voglio scrivere un post impopolare, anche rispetto ai consigli che io stessa vi ho dato qui (leggeteli se non lo avete fatto, sono ancora validi e fareste senza dubbio meglio a seguirli).

Voglio scrivere un post impopolare perché da giorni leggo messaggi ed e-mail dei miei pazienti.

E i miei pazienti hanno paura.

C’è chi ha paura del contagio. Chi, se esce a comprare il pane, poi fa una doccia di 30 minuti e si disinfetta la pelle con l’alcol a costo di raschiarsela di dosso. C’è chi si spoglia prima di entrare a casa e lava tutti i vestiti a 90 gradi e con l’amuchina.

C’è chi ha paura che il mondo, come lo conosceva prima, non tornerà mai più. Chi ha paura che la gente uscirà a festeggiare, alla fine della pandemia, ma non sarà più capace di abbracciarsi, c’è chi crede che resteremo sempre un passo più in là quando faremo la fila e che non saremo più in grado di stringerci le mani e pigiarci l’uno all’altro ballando sudati e senza freni inibitori a un concerto.

C’è chi ha paura della recessione economica. Chi pensa che non morirà del virus, ma della sua terapia. Sì, perché quando tutto sarà finito il suo lavoro non ci sarà più e sente di non avere le forze per ricominciare e intanto ha figli da campare, genitori anziani da accudire.

C’è chi ha paura dei suoi giorni in casa, perché li passa col suo carnefice, a volte al plurale. C’è chi ha paura perché non sa quanto resisterà tra quattro mura senza affetto, quattro mura che dunque non fanno una casa ma una prigione: #restainprigione, quindi, e resisti ancora un po’.

E quindi nel mio post impopolare voglio dirvi che è legittimo avere paura.

È legittimo crollare.

È legittimo dire che oggi ho pianto, ma anche ieri. Perché mi manca il mio amore lontano, mia madre e mio padre, mia figlia, mio nipote e mio cugino e sono preoccupato per mia nonna e per mio zio e per quell’altro amico là, che non lo vedo da giorni e chissà se lo rivedrò mai.

È legittimo che il fiato manchi fino a sentirsi soffocare, all’uscita del supermercato dove hai fatto la spesa veloce, senza sorridere a nessuno, con la bocca serrata dentro la tua mascherina chirurgica e le mani sudate nei guanti, mentre guidi verso casa, in una strada deserta, e ai fianchi scorre la locandina del cinema che segna gli spettacoli del due marzo, perchè poi il mondo si è fermato.

È legittimo dire che oggi non mi sono mosso dal divano e non ho letto, non ho guardato nessun film e ho spento la tv solo quando non trasmettevano più approfondimenti sul Coronavirus e alla fine mi sono sentito solo e ho scritto un messaggio al mio ex per chiedergli se in fondo mi abbia mai amato. E lui non ha risposto.

È legittimo ammettere che oggi ci ho dato dentro con il cioccolato, con la birra, con la torta che avevo fatto ieri, con le patatine e con le sigarette.

È legittimo dirsi queste cose, altrimenti uno pensa che gli altri non le provano.

Che gli altri non piangono.

Che gli altri non hanno paura.

Che sono tutti lì, dentro le loro case perfette, con i loro figli perfetti, i mariti perfetti, i genitori in salute a programmare letture, film, ginnastica, videocorsi, webinar, ascoltare podcast, informarsi una sola volta al giorno sul Coronavirus e solo da fonti autorevoli, infornare biscotti, preparare pranzi luculliani ma con i valori nutrizionali in equilibrio perché è giusto mangiare sano.

Non è così. Stiamo soffrendo tutti, tutti arranchiamo.

E tutti possiamo concederci il diritto di essere deboli, ogni tanto.

Ora però fatti una doccia, metti in piega i tuoi capelli, vestiti, sbarbati o mettiti un filo di mascara. Fallo per te. E vai ad affrontare la tua giornata: non sarà facile ma puoi sopravvivere ad essa. Puoi addirittura provare a viverla e a cavarci molto più di qualcosa di buono.

Dott.ssa Silvia Pittera, Psicologa e Psicoterapeuta.

2 pensieri su “L'importanza di essere deboli.”

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